La mia Vittoria❤️

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Sono passati quasi due mesi da quando la mia piccola Vittoria ci ha lasciato.

E i giorni si susseguono, alcuni al rallentatore. Il dolore arriva ad ondate. Non è mai uguale e ti assale quando meno te lo aspetti.

Oggi per esempio una telefonata dal centro analisi, che non poteva sapere che Vittoria non c’è più, mi ha trascinato là dove non voglio essere. In quella realtà parallela dove la pancia è cresciuta, dove sono in maternità e giro appesantita per la mia città cercando di mantenere qualche impegno di lavoro.

In quella realtà sto iniziando a preparare la valigia per l’ospedale come si fa quando ci si affaccia ai setti mesi. Compro le prime tutine rosa e penso a come sistemare la cameretta, facendo spazio per lei tra le cose di Edo.

È una realtà dove sono incredibilmente felice e forse quella felicità mi fa un po’ paura. E sono anche, come mi capita sempre, preoccupata per mille cose stupide.

Vittoria calcia dentro di me, ma è anche una bimba tranquilla, già pronta ad avere a che fare con una mamma piena di impegni e di voglia di vivere.

Ecco basta una chiamata per riportarti con la mente là, in quella realtà in cui non ti vuoi affacciare perché fa davvero troppo male.

E allora ho deciso che questa volta le emozioni sono troppo forti per tenerle dentro. C’è bisogno di uno spazio in cui scrivere. Di lei, della mia Vittoria.

Non so cosa diventerà questo spazio, ma voglio dire il suo nome e capire cosa può diventare, la mia piccola Vittoria, capire oltre questo dolore cosa ci aspetta.

8 Marzo 2019

Strano 8 marzo ieri. Ho passato tutto il giorno pensando alla donna che saresti potuta diventare e a tutte le cose che avremmo potuto vivere insieme.

Ed è incredibile come, proprio tu, che sei stata un piccolo battito d’ali, solo per poco, troppo poco, insieme a me, mi stia insegnando cosa significhi davvero il coraggio delle donne.

Sei in un quadro

Ho potuto stringerti tra le mie braccia solo pochi istanti.

Eri bellissima.

Non lo dico perché sono la tua mamma. È un dato di fatto.

Avevi delle labbra carnose, un piccolo bocciolo. È un nasino a patata. Un po’ di peluria mora in testa… sono certa che saresti stata mora.

E poi la pelle così rosa. Sembrava che da un momento all’altro dovessi aprire gli occhi per guardarmi serena.

Non ho foto di quel momento, ma non ti voglio dimenticare e allora ho pensato di far realizzare un quadro.

Ci siamo tu, io e papà.

Io ti tengo stretta un braccio e papà ci guarda pieno d’amore, come è successo quel giorno.

Piccola mia mi devo accontentare di questo. Di un piccolo quadro pieno di luce e pieno di amore.

Di te non ho altro, se non un piccolo paio di scarpette bianche e oro. Le serbo in una scatola. L’ho decorata con il tuo nome ed ho realizzato un piccolo cuore di stoffa rossa, pieno di brillantini. Come piace a me che il tocco di brillantini alle cose che realizzo lo do sempre.

Ti voglio bene piccola mia e mi manchi immensamente.

Dovevi nascere ora con l’arrivo della primavera e invece sei nata d’inverno. Un sabato di novembre, pieno di pioggia e vento.

Ti voglio bene piccola mia, guardami dall’alto perché questi sono giorni davvero difficili. I bimbi nascono e tu invece sei in quel quadro.

Eterna nel mio abbraccio.

Perché perché perché perché

Questo è uno di quei giorni in cui mi chiedo “Perché a me? Perché perché perché è successo proprio a me, a noi? Perché, cosa ho fatto di male per meritarmelo? Cosa ho sbagliato? Cosa ho fatto al cosmo per meritarmi tutto ciò? ”

Perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché perché

Potrei continuare all’infinito.

Anche se so che questa domanda non avrà mai una risposta.

Le sommerse e le salvate

Penso spesso a quelle madri che affrontano la traversata del Mediterraneo, con delle creature nel grembo, o con bambini da poco venuti alla luce.

Ci penso quando penso a te Vittoria, che non sei venuta alla luce pur avendo attorno a te calore, cure mediche, tutte le condizioni affinchè la vita potesse proseguire senza inciampi.

A volte un bambino viene alla luce su un gommone nel mare in tempesta, dopo che una madre ha attraversato l’inferno. Altre volte una piccola vita se ne va, quando una madre l’ha curata e cresciuta in mezzo a tutti gli agi possibili.

E’ una delle tante domande che mi serbo in cuore, il Mistero profondo di questa vita che stiamo vivendo, uno di quei perchè a cui non si riesce neanche a dare voce.

Poco fa mi sono capitate sotto gli occhi queste parole di ERRI DE LUCA e mi paiono significative per spiegare il coraggio delle madri, a terra e in mare.

“Durante i giorni in mare con Medici Senza Frontiere mi ero portato da leggere l’Eneide. Come per l’Odissea la parte attraente per me erano le navigazioni, più delle vicende in terraferma. Sono i venti contrari, più dei favorevoli, a decidere i loro viaggi.
È la tempesta a spiaggiare Enea sulla costa Libica, accolto da eroe da Didone, regina del luogo. 
Richiesto da lei, Enea racconta il crollo di Troia, l’ultima resistenza, la sua messa in salvo, l’imbarco e la deriva. 
Virgilio gli fa dire un verso estremo fino al paradosso: ”Una salus victis, nullam sperare salutem“, unica salvezza per i vinti, nessuna salvezza sperare. 
Come può la perdita di ogni speranza essere l’unica salvezza?
Penso all’insurrezione del ghetto di Varsavia del 1943. Quei resistenti male armati erano vinti in partenza, ma non rinunciarono a battersi. Quando la speranza è zero, spuntano forze e istinti che tentano l’impossibile. Avevo questa spiegazione del verso di Virgilio. Mi dovette colpire anche allora, perché è l’unico verso del poema che ricordo ancora. 
A chi sta in terraferma oggi è incomprensibile che in Mediterraneo avvengano naufragi a mare calmo. Il mare stesso, in persona, è sgomento della più micidiale quota di annegati della sua storia. 
A bordo di quella nave che scippava vite condannate a morte, ho visto salire madri con bambini in braccio. Come potevi, madre snaturata, esporre la tua creatura alla più alta probabilità di morte? Cosa spinge una madre allo sbaraglio con forza superiore all’istinto  materno? 
La disperazione. Lo ha saputo un poeta e lo ha fatto dire al suo personaggio. Servono a niente speranze e speranzelle per chi è passato per le prigioni libiche. Solo la disperazione è forza motrice per affrontare a freddo qualunque via di fuga. La disperazione fa saltare dal decimo piano di una casa in fiamme. 
L’ho saputo a bordo di un battello salvagente, il senso di un verso rimasto in memoria. 
Quando madri di bambini in braccio si buttano alla cieca in mezzo al mare, niente di niente le potrà distogliere, fermare. I porti chiusi di un ministrello sono la patetica impotenza a misurarsi con la disperazione. 
Auguro all’anno nuovo un poco del coraggio sovrumano di quelle madri, le sommerse e le salvate.”

P.S.

Paradossalmente pur con i piedi saldi sulla terra ferma mi sento io quella sommersa dal mare … senza neppure essere riuscita a salvare la mia creatura.

Valencia

Ci sono luoghi che ti chiamano a sé con una forza di attrazione impensabile, irrazionale.

Per me questo luogo è Valencia.

È la terra che più mi ha messo alla prova, ma anche il posto dove sono stata in assoluto più felice.

Chiudo gli occhi e mi vedo passeggiare per le sue strade. Immersa in quella luce unica per intensità. Una luce accecante, spessa, sorprendete.

Mi vedo per le sue strade, mentre una brezza calda fa muovere le foglie di quegli alberi strani, sconosciuti, pieni di fiori colorati.

Ed è come se tutto il mio corpo volesse tornare lì. Felice, piena, ebbra. Quando ancora pensavo che la vita era bella. Quando ancora il mio naturale ottimismo invadeva ogni cosa.

Ricordo ogni attimo di quei giorni sospesa. Il passeggiare leggera, il pane dolce al mattino, le spremute.

Ricordo sopratutto quella sensazione di essere dentro un sogno. La certezza che ci attendeva la vita. Il senso dell’amore che ti fa fare follie. La circolarità delle esperienze, l’inizio e il ritorno che si erano incarnati in un luogo così bello.

Ho sempre detto che Valencia era il luogo in cui “sono nata al mondo”… 20 anni dopo Valencia è la città in cui ho rotto ogni vincolo con la vita di prima.

Quello che pensavo essere un salto nella luce si è rivelato invece un tuffo nella disperazione. Forse una disperazione ancora più profonda perché sono caduta dopo aver toccato una gioia immensa.

Eppure Valencia in me rimane luogo di luce, luogo di amore, fantasia di ritorno a casa, sogno di vita.

Me muerdo y me como

Ci sono cose che fanno male.

Notti insonni in cui mi ritrovo a pensare cosa ne sarà di me, di noi.

E sotto il mio sorriso, lo metto al mattino e lo ripongo la sera, crescono angosce e paure che non pensavo neanche si potessero avere.

Ecco se dovessi ore esprimere un desiderio sarebbe quello di lasciare andare quelle paure.

Neanche la ragione riesce a guardarle in faccia. A volte gridano dentro di me, in altri casi sussurrano parole.

Emergono all’improvviso, in una immagine, in un istante, anche quando sono apparentemente serena.

Mi attraversano e mi lasciano lì. Guscio vuoto, senza parole, se non quelle lacrime che scorrono dentro, mentre il sorriso veste il mio aspetto esteriore.

(Questo quadro dovrebbe intitolarsi “Me muerdo pero no me como“, mi mordo ma non mi mangio).

Ti meriti un amore che ti voglia spettinata (F. Kahlo)

Torno ancora con la mente a Frida Kahlo.

Le immagini dei suoi dipinti mi rimangono dentro. Sento il suo dolore, lo sento vicino. La sua arte dà voce a quello che provo, alle mie sofferenze così come le sue.

Ieri per esempio guardando alcune sue opere sono rimasta profondamente colpita da “Unos cuantos piquetitos“.

Una donna ferita a morte su un letto, un uomo che la osserva. Un corvo nero.

Ho letto subito la storia da cui é scaturito il dipinto.

La Kahlo rimase molto colpita dalla vicenda di un uomo che al processo per l’uccisione della moglie si giustifico dicendo che erano stati “Unos cuantos piquetitos“, ovvero solo qualche piccola pugnalata.

A prima vista senza leggerne la storia mi sono immedesimata in quella donna sul suo letto di morte. Forse perché mi sembrava una donna esausta, compatibile con la sofferenza che si ha al termine di un parto tragico.

Leggendo poi la critica al quadro ho scoperto che la Kahlo si era immedesimata in questa donna perché in quel momento della sua vita stava soffrendo per i ripetuti tradimenti del marito. Inoltre il tema del corpo violato dalla sofferenza fisica è sempre centrale nei suoi quadri, ovviamente correlato con la sua storia personale. Frida infatti ha dovuto, per tutta la vita, combattere con atroci dolori e menomazioni.

Forse per la prima volta in vita mia sto capendo davvero cosa significhi immedesimarsi in un’opera d’arte, rispecchiarsi e trovare conforto dal vedere rappresentato quel che si prova.

Ed è evidente il perché che mi stia accadendo osservando le immagini dipinte da una donna.

Solo una donna infatti può esprimere un certo tipo di dolore, la sofferenza intima e le ferite profonde che certe esperienze legate alla maternità possono lasciarti.

E quell’espressione “Unos cuantos piquetitos” per me corrisponde a chi non capisce quanto quelle pugnalate al cuore e al ventre che ho subito siano profonde, non sono guarite, ma anzi che sanguinano di continuo dentro di me, tanto che a volte mi pare che le ferite che ho siano più aperte oggi di tre mesi fa.

P.S.

A proposito del titolo di questo post. Stavo cercando una frase per San Valentino e mi è capitata sotto gli occhi questa frase di Frida Kahlo. E mi è piaciuta tantissimo. Forse perché mai come ora mi sento “spettinata” dalla vita. Forse perché mai come ora mi faccio domande su cosa mi riserva il futuro. Non so nulla, e non riesco ad immaginarmi nulla. Ma sono certa che voglio persone vicino che mi amino anche da spettinata.

The hole

In questi giorni mi accompagna ovunque una sensazione strana, come se avessi un buco dentro la pancia.

Sento del dolore, sento i crampi, e ogni sensazione mi risucchia riportandomi con il pensiero a te Vittoria.

È come se avessi fatto un salto indietro nel passato, come se fossi tornata indietro nel mio percorso di elaborazione del lutto.

Mi manchi Vittoria. Mi manca sentirti dentro, mi manca il conto alla rovescia che accompagna la gravidanza. Mi manca immaginarti. Mi manca toccarmi la pancia con apprensione e gioia. Mi manca pure la nausea che mi ha accompagnato sempre nei mesi in cui sei stata con me. Mi manca la stanchezza motivata dal fatto che eravamo in due. E poi mi manca enormemente quella gioia e quella forza enorme che tu riuscivi a darmi.

Forse tutta questa mancanza si traduce in quel dolore cieco che sento nelle viscere. Vorrei che anche il tempo, non solo il mio dolore, potesse tornare indietro.

Continuo a ripercorrere mentalmente ogni minuto di quei giorni. Mi faccio domande, riesamino le prove. Sono nel labirinto della memoria, e non ne voglio venire fuori.

Per tutti, o quasi, questa vicenda, la tua vicenda è un capitolo chiuso.

Ieri da una amica mi è stato detto che adesso sto bene, che è passata.

Ma come fa chi è attorno a me a non capire che non è passato nulla!?!

Che io sono ancora in quella stanza di ospedale, così come allora sono vuota e attonita.

Forse scambiano per elaborazione quella calma serafica che è diventata la mia maschera.

Ma è una calma che deriva dal dolore che ho dentro, che è talmente grande che risucchia tutto. Tutto finisce in quel buco, e qualsiasi emozione è nulla al confronto di quel dolore enorme, sordo, pieno di domande, pieno di perché.

Come Frida?

In uno degli ultimi tentativi di fecondazione assistita ebbi una reazione particolarmente dolorosa dopo che mi prelevarono gli ovuli. Dovetti stare a letto una intera giornata, in una camera d’albergo di una città che conoscevo poco.

Ricordo che fuori nevicava, e la neve aveva la stessa ambiguità dei sentimenti che mi frullavano dentro. Dolore, rabbia, attesa, speranza, tutte queste emozioni si alternavano, senza che nessuna prevalesse.

I tentativi di fecondazione assistita sono tutti così. Un crogiolo di emozioni, accompagnati da una discreta dose di dolore e fastidio fisico. La cosa che dovrebbe essere più dolce, bella, piacevole e naturale al mondo che invece si rivela come un percorso ad ostacoli, complicato (anche perché la burocrazia e gli ospedali te lo rendono molto più complicato di quanto non sia già di per se). Tutto il tuo corpo è invaso, esplorato, a tratti violato da qualcosa che nulla ha a che fare con la natura.

Eppure è proprio la forza della vita, la voglia di generare vita, che è la cosa più naturale al mondo, che ti spinge lì. In un ambulatorio, in mezzo a gente sconosciuta che ti fruga dentro, mezza nuda su un tavolo operatorio, sempre troppo freddo, con le gambe aperte, mentre preghi sottovoce che quella sia la volta giusta, la volta in cui la vita dentro di te si formerà, invadendoti e riempendoti tutta.

Stavo facendo pensieri simili in quella camera di albergo, a letto, dolorante per l’operazione appena avvenuta, quando per distrarmi un po’ ho deciso di guardare il film dedicato a Frida Khalo.

Oggi la sua storia mi è tornata in mente. Nel film si racconta del difficile rapporto con la maternità che ebbe Frida, dei bimbi persi durante le gravidanze, del dolore enorme, anche fisico, e del fatto che non riuscì mai a diventare madre.

E allora sono andata a cercare le sue opere. Per capire come aveva raccontato quello che aveva vissuto.

Mi ha colpito profondamente il dipinto “il letto volante”.

Quanta sofferenza c’è in quel letto, e quanto mi ci sono rispecchiata.

Sono stata anche io corpo nudo, sul letto anonimo di un ospedale, avvolto nel sangue, così osceno, così triste, così solo.

Quel bambino che fluttua collegato ancora al cordone ombelicale è Vittoria, la sua presenza che mi è così vicina, collegata a me da un cordone ombelicale che esisterà per sempre.

Ho sentito il dolore di Frida nella mia carne. Il suo dolore come il mio, impresso nella carne, eterno nel cuore.

Allo specchio

C’è un passaggio del libro “Il quartiere” di Vasco Pratolini che mi ha sempre colpito. Uno dei personaggi verso la fine del libro sostiene che per diventare adulti bisogna avere il proprio segreto. La schiettezza, il presentarsi al mondo, così come si è, appartiene solo ai bambini.

Mi osservavo allo specchio ieri sera per scrutare i cambiamenti del mio volto dopo quanto mi è accaduto.

Gli occhi forse sono un po’ più stanchi, ma sempre belli. Il naso e la bocca un po’ anonimi, ma tanto sono gli occhi che da sempre prendono la scena.

Mi sono ingrassata, ma forse avvolta in strati di nero non si vede troppo. E non riesco ancora a liberarmi di quella panciotta, che ogni tanto involontariamente accarezzo. È la stata la tua casa, la tua culla, ancora non ce la faccio a lasciarla andare.

Mi sento così, un involucro che ha custodito la vita, ma non è stato capace di proteggerla fino in fondo, non è stato capace di nutrirla bene, di farla crescere sana.

Un involucro informe e nero.

Ai medici forse faccio un po’ di pietà. Cercano tutti di rassicurarmi, di proteggermi. Mi dicono che quanto è accaduto non è colpa mia. Come se potesse alleviare il dolore.

Ma per una volta nella mia vita è come se quel dolore lo volessi guardare in faccia tutto. Me lo volessi addossare tutto.

Me lo vorrei incidere sulla pelle. Forse anche per ricordarmi che non basta la volontà, ci vuole un corpo che quella volontà sia in grado di sostenerla, di portarla in giro.

Con questi pensieri ho iniziato una dieta, che non sta andando da nessuna parte, anzi che mi fa sentire ancora più triste ed inutile.

Guardandomi allo specchio ieri mi chiedevo se sarei più stata me stessa, o meglio sincera con qualcuno.

La risposta che mi sono data è negativa. Non lo sarò più. Non sarò più sincera. Perché per esserlo dovrei raccontare di Vittoria, di tutto questo dolore, farlo fino in fondo, e non credo che questo accadrà mai. O forse riuscirò a raccontarmi con qualcuno, a mostrare il mio dolore, ma certo sarà un rarissimo caso.

E mi accorgo di come il mio volto sia lo stesso, ma dentro sono completamente un’altra.

Le persone che mi conosco da prima di Vittoria ora mi scrutano cercando indizi del mio ritorno alla “normalità”. E glieli sto anche dando, perché mi sento meglio a vivermi questo dolore da sola, protetta nella mia tana.

E’ più semplice (per me e per loro) indossare la mia divisa della normalità, piuttosto che far vedere quella massa informe che ho dentro e che ancora non so cosa diverrà.

Però che fatica.

Non che sia fatica sempre, lo è nei momenti in cui mi sorprende il dolore, un pensiero, un ricordo. E allora il respiro si spezza, gli occhi diventano lucidi. Mi accade ovunque, in qualsiasi situazione, e mi ci vuole una forza di volontà incredibile per tornare dove sono, nel qui ed ora, per asciugarmi quella lacrima che forse sento solo io.

Respiro, ecco mi concentro sul respiro.

Non sempre funziona, ma il più delle volte mi fa tornare dove devo essere, l’aria che riempie i polmoni allenta la tensione.

La nostalgia per quello che sono stata, per quando eri con me, per quello che saremmo dovute essere, quella però non passa mai.

Non credo che passerà mai.

Forse si trasformerà in un pensiero dolce.

Chissà anche in gratitudine poter averti comunque avuta, seppur per così poco, con me, mia piccola, dolcissima Vittoria.